L’economista Loretta Napoleoni definirebbe il sistema incentivante per il personale “uno strumento dell’economia canaglia”, portatore di illiberalità; io aggiungo che è anche un mezzo incapace di performare il suo obiettivo finalistico: “L’implementazione degli utili aziendali”.
Il metodo, nella sua formulazione contemporanea, risale ai tempi di Frederick Taylor, il fondatore della scienza del management (siamo a cavallo del novecento) e da allora viene considerato come la migliore benzina per allineare il comportamento individuale con gli obiettivi dell’organizzazione, nella mala convinzione che il principale carburante dell’uomo sia il denaro.
Stiamo, è palese, affrontando un argomento intriso di ideologia e di false credenze che, se analizzato nella concretezza dei risultati, appare utile solo ad una ristretta cerchia di parassiti (top management e società di consulenza manageriale) ma, in termini prospettici, è letale per aziende, azionisti, lavoratori, clienti ed istituzioni in generale.
Prima di iniziare un ragionamento che terminerà con la bocciatura, in termini di vantaggio aziendale, del sistema incentivante, alcune precisazioni sono doverose.
In altri spunti riflessivi ho descritto i doveri di un lavoratore assunto con un contratto di lavoro subordinato e messo in guardia dal prendere sul serio i deliri del middle management, impegnato (si sa per cosa ma non per conto di chi, visto che nessuno se ne assume la paternità) a diffondere messaggi contrari ai regolamenti aziendali, ai codici etici, ai contratti collettivi e spesso anche a precise disposizioni di legge, nel tentativo di accelerare i tempi di avvicinamento ai risultati programmati.
Il contratto di un lavoratore subordinato (è banale ma va ribadito) non prevede alcun trasferimento del rischio d’impresa dagli azionisti ai lavoratori e neppure soluzioni punitive in caso di mancato raggiungimento degli obiettivi aziendali.
Dobbiamo solo (e non è poco) corrispondere una prestazione attiva, intensa, diligente ed osservante delle direttive praticabili nonché agire secondo le previsioni di legge e di contratto (collettivo ed individuale – quest’ultimo nell’ambito delle ulteriori pattuizioni assunte nella cosiddetta area disponibile; per capirci non possiamo accordarci, magari pensando a qualche beneficio compensativo, su una riduzione delle ferie, sul mancato pagamento degli straordinari o su altre possibili amenità -).
Il sistema incentivante, nella quasi totalità dei casi è imposto (non è prevista alcuna negoziazione tra le parti) dall’azienda e canalizzato in funzione di un obiettivo principale: “Generare maggiore reddito nell’esercizio in corso e possibilmente ripetere il successo (con gli accorgimenti revisionali – costosissimi- delle società di consulenza esterne) negli anni a venire”.
Annotiamo che nelle campagne pubblicitarie (dove ogni mese si bruciano milioni di euro) si tace pudicamente sulla bussola (sistema incentivante) che deve orientare l’azione dei lavoratori (vendere – vendere – vendere) per focalizzarsi su più commendabili bersagli (l’interesse e la soddisfazione del cliente, lo sviluppo del territorio, l’economia sociale e solidale … ).
Le aziende si rendono conto di indossare un obiettivo vestito che non piace e si fanno “camaleonti”, senza pensare che questa comunicazione conflittuale genera un effetto perverso e una confusione mentale anche per i lavoratori che, da una parte, ufficialmente, sono chiamati a rispettare regolamenti e codici etici da esercito della salvezza e dall’altra, dietro le spinte degli scherani di turno, a riversare sull’utenza ogni immondizia capace di fare reddito.
Sono le ben note strategie di cross selling che si concretizzano quando ad un cliente si riesce a vendere qualcosa che non aveva previsto di acquistare. Ma la comunicazione ambivalente, ecco lo scotto imprevisto, indebolisce la reputazione, incrina la fiducia nell’azienda e demotiva l’azione personale. La maggior parte dei sistemi compensativi non solo falliscono nel fine primario ma, come ho accennato, generano effetti collaterali così dannosi da distruggere anni di buon lavoro.
Tra gli studi indipendenti, qualificati a livello mondiale, citerei per intensità di analisi ed autorevolezza quelli condotti da Yeffrey Pfeffer e Robert I. Sutton, docenti di fama mondiale nel campo dell’ingegneria gestionale e acclamati relatori delle migliori Business School americane. Gli studiosi giungono alla conclusione che quando l’analisi dei risultati interessa organizzazioni complesse, il sistema incentivante, basato sul maggiore reddito, fallisce miseramente. Di diverso avviso, naturalmente, le società di consulenza manageriale, prima fra tutte la costosissima McKinsey & Co. che ogni anno guadagna cifre astronomiche vendendo e/o revisionando applicativi incentivanti.
Ma vediamo dove e perché il sistema incentivante non funziona.
Quando la performance non può essere misurata in maniera scientifica, quando non è l’indubbio risultato del lavoro di una singola persona ma di un sistema dominato dall’interdipendenza e dalla connessione tra uffici e funzioni in una dinamica di relazioni orizzontali e verticali, assegnare ricompense, soprattutto se generose, è il modo migliore per farsi male e non solo.
Questo perché la valutazione che ognuno fa di se stesso è ben diversa da quella che il valutatore fa del valutato (effetto frustrazione) ma soprattutto perché, nelle organizzazioni complesse, queste misurazioni sono oggettivamente impraticabili se si vuole evitare fuorvianti discriminazioni e semplificazioni (non è la stessa cosa contare quanti pacchi incasella Tizio e capire perché Caio vende meno servizi di Sempronio; infinite variabili possono incidere e molto più della volontà e della capacità dei soggetti confrontati, a performare meglio l’obiettivo).
Le indagini degli studi indipendenti (quelli che guadagnano facendo ricerca e non vendendo il prodotto) indicano ben altre condizioni motivazionali capaci di performare e creare i presupposti per un successo aziendale stabile.
Vediamone alcune.
Performa l’azienda che ha un sistema organizzativo che facilita la comunicazione, che si propone pochi obiettivi e ben chiari, che forma adeguatamente il personale assegnandogli mansioni e compiti precisi, che concede una maggiore autonomia organizzativa (sprigionare le capacità individuali -autentico plusvalore), che conferisce poteri strettamente collegati alle responsabilità, che dispone di un apparato di controllo poco assillante ed attento a discriminare gli errori involontari (funzione protettiva) dai comportamenti dolosi (funzione punitiva), l’azienda che gode di buona reputazione ed è capace di mantenerla, l’azienda che può vantare una dirigenza carismatica, illuminata, inclusiva e sensibile alle istanze dell’apparato collaborativo.
I lavoratori devono avere fiducia nella propria azienda ed apprezzarne la cultura.
Sono queste le soluzioni che fanno resistere alle tempeste del mondo degli affari.
Riflettiamo anche su un altro aspetto, irragionevolmente trascurato.
Puntare sul denaro per moltiplicare le energie della macchina (uomo) crea la figura, sempre più attuale, del dipendente mercenario. Il sistema incentivante è un sistema di valori che restituisce all’azienda la stessa attenzione che essa riserva ai suoi collaboratori.
Per parafrasare Treybig: “Se la gente viene per i soldi se ne andrà per i soldi”. Vi interessano dipendenti mercenari? Bene questo sistema fa per Voi ma poi, non parlateci di squadra, di comunità, di condivisione, di tolleranza; farebbe ridere.
Non dimenticate, altra lacuna dell’indagine, che la politica degli incentivi crea anche assuefazione (le persone si abituano facilmente alle ricompense economiche al punto di considerarle parte integrante, scontata, della propria retribuzione).
Sembra davvero strano che molti studiosi di “management” dimenticano che le organizzazioni sono entità sociali e le persone sono creature sociali che si confrontano l’una con l’altra e da questo paragone ricavano sentimenti di autostima, di inclusione-esclusione e percezione di status.
Il sistema incentivante, al di là delle discutibili e costosissime (la sua applicazione è dannatamente cara) misurazioni è un dispensatore di risentimento e un moltiplicatore di occasioni perse.
Conclusioni.
Ho sempre battagliato contro questa politica postribolare.
Giudico il “sistema incentivante”, nella sua impostazione tradizionale e sulla base dei risultati prodotti e ben visibili, uno strumento arbitrario ed immorale (l’istigazione a ricorrere a comportamenti riprovevoli e spesso anche illegali, non è infrequente).
Lo considero negativamente anche perché non è solo uno schema di organizzazione aziendale ma è anche un propulsore ideologico in grado di creare un modello di lavoro e di vita che spezza la socialità dei lavoratori e la loro capacità di esprimersi come forza coesa e capace di produrre cambiamenti socialmente favorevoli.
Nessuno, in uno stato di diritto, può imporci azioni o comportamenti contrari alla legge e oltre l’impegno contrattuale.
Lavoriamo attivamente e con la massima diligenza, osserviamo scrupolosamente le direttive aziendali (quelle ufficiali), i regolamenti interni (quelli scritti), il codice etico (quello pubblicizzato a mezzo stampa) ma se qualcuno ci invita, o peggio, ci istiga a comportarci come dei banditi, non esitiamo a denunciarlo.