Quello che oggi dovrebbe sorprendere un osservatore del vivere collettivo è il conformismo dilagante, l’assenza del pensiero critico e la scomparsa dell’espressione del dubbio, un trittico che caratterizza una società vocata al più inquietante egualitarismo servile.
Il nuovo cittadino dello stivale sembra ammantato dai dogmi dell’ambientalismo neomaltusiano, del vaccinismo ascientifico, del buonismo da salotto, e del vittimismo irresponsabile.
Si tratta di un blocco ideologico che ha il suo prontuario dei diritti e dei doveri, le sue armi di comunicazione manipolata e la capacità di svaporare esseri concreti nel non luogo della globalizzazione che nessuno conosce e nessuno abita.
La direzione dei lavori è affidata ad esecutori senz’anima, chiamati a forgiare una nuova specie di idioti digitali, facilmente controllabili ( pensate al green pass e alla moneta digitale), fortemente asociali (pensate alle strategie di insinuazione del sospetto, all’esaltazione della competizione e all’obbligo del distanziamento) e senza ampiezza di pensiero (pensate alla scuola che, di fatto, non fa cultura, non insegna, non prepara al confronto e alla critica costruttiva ma tende a forgiare competenze per un’economia dove si insegna a fare senza esplorare i risultati del proprio agire).
Per raggiungere questo cortocircuito di massa esistono le tecniche del consuadere (neologismo), un mix studiato di narrazioni, suoni e immagini, pratiche che garantiscono risultati sorprendenti.
La guerra in Ucraina
La tragedia a cui stiamo assistendo, con il suo carico di angoscia e di dolore, si intreccia con questa riflessione.
L’ho già scritto, ma vale la pena ripeterlo: “Le guerre celano solo interessi economici e logiche di spartizione di potere; di fatto, riguardano sempre gruppi ristretti di oligarchi insensibili all’empatia e al bene comune.
Per loro e solo per loro, muoiono i civili e i soldati, strumenti pulsionali da usare per aizzare le diverse tifoserie, per fare statistiche e per negoziare il tornaconto finale”
Chi non ha chiaro questo passaggio è promosso, senza esami, nella squadra dei capponi di don Abbondio, i polli che con la testa in giù si beccavano tra di loro prima di finire tutti in padella .
Affibbiare ad un popolo qualità di merito o patenti di infamità è una strategia di bassa lega per depistare gli allocchi.
Come antidoto alle favolistiche ricostruzioni massmediatiche, ricorriamo alle parole di Polibio, grande storico greco nato a Megalopoli, in Arcadia, intorno al 200 a.C., fine conoscitore dei meccanismi di potere dello stato romano e della sua potenza. Per Polibio tutte le guerre hanno tre cause.
C’è la pròfasis che è la scusa, la bella facciata, quella che viene raccontata al popolo per giustificare il sacrificio che gli si chiede (insomma la bugia) . Poi c’è l’aitia, che è la causa effettiva della guerra, che viene nascosta ed è quasi sempre collegata ad un interesse economico.
E poi c’è l’arché che è la scintilla, il pretesto per iniziare il conflitto.
Se guardiamo indietro nella storia, noteremo che tutte le guerre, anche quelle apparentemente combattute per grandi ideali, nascondevano sempre queste tre cause. La guerra di secessione degli Stati Uniti è stata apparentemente combattuta per liberare gli schiavi di colore dalle catene degli Stati del Sud (e questa è stata la «pròfasis», la scusa).
In realtà, il conflitto è stato determinato da due diverse economie a confronto: il Sud produceva ed esportava cotone a bassissimo costo, potendo contare sulla manodopera degli schiavi; il Nord invece era per una politica di tipo protezionistico, che tutelasse le proprie aziende dalla concorrenza degli Stati meridionali (e questa è stata la «aitia», ossia la vera ragione).
Inoltre, al Nord serviva manodopera per dare impulso al nascente capitalismo industriale: affrancare i neri significava trasferirli nelle proprie fabbriche togliendoli dai campi.
La scintilla che ha dato il via alle ostilità (l’«arché») è stata la dichiarazione di indipendenza firmata da alcuni Stati del Sud, che formarono nel 1861 la cosiddetta Confederazione, separandosi dall’Unione.
La stessa tripartizione delle ragioni di un conflitto la troviamo anche nell’Unità d’Italia, apparentemente combattuta per unire il nostro Stato, in realtà voluta e finanziata dalla massoneria inglese che temeva l’espansione della Francia e voleva che si formasse a sud uno Stato cuscinetto.
La spedizione dei mille è stata la scintilla che ha generato poi tutto il resto. Nella prima guerra mondiale la causa occasionale fu l’attentato di Sarajevo (28 giugno 1914), in cui trovarono la morte l’arciduca ereditario d’Austria Francesco Ferdinando e la moglie, per opera di uno studente serbo.
Ma le vere cause della guerra furono il contrasto austro-russo per l’egemonia nei Balcani, il contrasto tra francesi e inglesi da un lato e la Germania dall’altro, che stava diventando una potenza militare tale da controllare l’Europa intera. In Italia l’abbiamo giustificata come una guerra di indipendenza per ottenere Trento e Trieste.
La seconda guerra mondiale e tutte le guerre regionali che oggi si combattono in giro per il mondo, rispondono alla stessa logica e a rimetterci non sono i pupari che negozieranno il sacrificio del sangue Anche la guerra in Ucraina risponde alla legge di Polibio.
La composizione del conflitto non poteva che risiedere nella diplomazia, un’arte estranea non solo al bibitaro del Maradona e al mercenario del Britannia ma anche ai più blasonati negoziatori di Strasburgo e di Bruxelles.
Fornire le armi ad un paese che non può vincere la guerra, giusta o sbagliata che sia, significa solo moltiplicarne le sofferenze, aumentare il bilancio dei suoi morti e distruggere le sue ricchezze. E se questo non bastasse, dopo aver propiziato i peggiori lutti agli ucraini, ecco sopraggiungere la politica delle sanzioni alla Russia, l’Europa della pace e il parlamento più squalificato dell’Italia, pre e post unitaria, peggio non potendo fare, riesumano il harakiri giapponese “ Punire i russi, massacrando gli europei, italiani in testa. (ennesima italica medaglia)
Liberiamoci dalle bugie e dall’incapacità di chi ci governa.
Secondo Mario Draghi la nostra economia non è in recessione, continua a crescere ma c’è un rallentamento.
Se le dichiarazioni del capo dell’Olimpo erano balzane prima della svolta bellicista, cosa potrà succedere nel prossimo futuro?